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Il mito dell'immunità di gregge


I fatti

Nel lontano 13 marzo 2020, quando il mondo assisteva ancora inerme all’avanzare del virus Sars-CoV 2, Patrick Vallance, consulente scientifico dell’allora primo ministro d’Inghilterra, Boris Johnson, rilasciò un’intervista per la prestigiosa Bbc Radio. Interrogato dalla giornalista circa le metodologie da applicare a livello governativo per contenere la pandemia, Vallance pronunciò parole approssimative, tipiche di quegli scienziati che, per motivi più che altro politici, si trovano costretti a lanciarsi in ardite speculazioni: “Il nostro obiettivo è cercare di ridurre il picco [del contagio], non di rimuoverlo del tutto, di raggiungere un certo grado di immunità di gregge, proteggendo al contempo i più vulnerabili.”


Figura 1 Patrick Vallance nello studio della Bbc Radio

Il piano, all’apparenza, era piuttosto semplice: raggiungere il 60% circa di contagi e lasciare, in questo modo, che la stragrande maggioranza della popolazione britannica si immunizzasse dal Covid, resistendo ad altre future ondate ed evitando di ammalarsi nuovamente. A quel tempo, l’OMS aveva dichiarato lo stato di pandemia da soli due giorni. Si era all’inizio di un periodo estremamente difficile, che avrebbe messo a dura prova tutti, politici, scienziati, medici, uomini e donne comuni. E quello, purtroppo, non era affatto il modo migliore per affrontare un problema così importante.

Ma cosa si intende, davvero, per “immunità di gregge”?


All'origine del concetto

Il termine nasce negli ultimi anni del Diciannovesimo secolo nell’alveo della medicina veterinaria. In origine, lo si usava spesso per riferirsi alla sorprendente resilienza che certi animali acquisivano contro determinati stati patologici nel corso di varie generazioni. Un caso piuttosto significativo fu quello della brucellosi, meglio nota, fra gli allevatori di bestiame, come “malattia dell’aborto”.

Figura 2 Tessuto bovino affetto da brucellosi
Figura 2 Tessuto bovino affetto da brucellosi

Trattasi di un’infausta patologia infettiva causata da un batterio che, saltando fra un animale e l’altro, innesca gravi problemi intestinali e, come effetto collaterale, l’aborto spontaneo nelle bestie gravide. Per gli affari era, evidentemente, una vera calamità, tanto da giustificare uno studio decennale da parte di due rinomati esperti statunitensi dell’agricoltura, Adolph Eichorn e George M. Potter. Osservando il decorso della malattia in varie generazioni di bovini, i due scoprirono un fatto sorprendente: evitando di abbattere tutti gli animali infettati ed allevando i piccoli sopravvissuti al contagio delle madri, dopo circa nove anni tutti gli esemplari svilupparono una qual certa resistenza al batterio. Secondo gli scienziati, quello fu un caso lampante di immunità di gregge: la malattia aveva circolato più o meno liberamente per un discreto periodo di tempo e i vitelli superstiti si erano immunizzati.

All’inizio del Ventesimo secolo, il concetto venne traslato alla medicina umana. Ed è qui che le cose si complicano e rendono la proposta di Vallance quanto meno problematica.


All'origine del problema

Prendiamo in esame tre malattie infettive, variamente pericolose ma parimenti subdole: il vaiolo, la poliomelite e il morbillo.

Il vaiolo umano (da non confondersi con quello delle scimmie, che da diversi mesi imperversa anche nella specie di Homo Sapiens) venne ufficialmente debellato nel 1980. L’eradicazione costò fiumi di soldi, infiniti sforzi da parte di medici e ricercatori e, soprattutto, un inaccettabile numero di vite umane stroncate. A questo, tuttavia, occorre aggiungere un dettaglio fondamentale: il vaiolo non ha origine zoonotica (di derivazione animale). Il virus circola liberamente fra gli umani e non ha un “serbatoio” animale in cui nascondersi, fra un’ondata e l’altra. Immunizzando la maggior parte della popolazione con una massiccia copertura vaccinale, è solo questione di tempo prima che la malattia retroceda e scompaia del tutto.

Come il vaiolo, così anche la polio non ha origine animale. In questo caso, l’eradicazione ha richiesto sforzi addirittura maggiori e non è stata del tutto efficace in alcune aree del mondo, principalmente perché i sintomi della malattia non sono subito evidenti (a differenza delle pustole vaioliche) e spesso si può incappare in casi asintomatici.

E il morbillo? Eccola, la zoonosi: un virus derivato dalla peste bubbonica dei bovidi, altamente contagioso e, in passato, piuttosto pericoloso.

Un virus come il morbillo non può essere eliminato per il principio dell’immunità di gregge: è sfuggente, subdolo, sa bene come nascondersi e, soprattutto, è estremamente instabile, soggetto a numerosi mutazioni e in grado di adattarsi con relativa flessibilità all’immunità acquisita dall’uomo.

Oltre al limite concettuale imposto dall’origine zoonotica di taluni patogeni virali, esiste almeno un’altra ragione, per la quale combattere una pandemia con l’immunità di gregge può rivelarsi un’impresa tanto vana quanto controproducente. Gli esseri umani saranno anche, biologicamente parlando, una specie animale, con una precisa collocazione nell’albero della vita, una propria tassonomia e un percorso evolutivo in comune… ma non vivono affatto come animali.

Gli istinti animali insiti in Homo Sapiens sono letteralmente sommersi da una complessità incredibile di bisogni secondari, che scandiscono abitualmente la vita di ogni persona. Un animale non va al lavoro, al cinema o allo stadio, non ha interessi personali o responsabilità familiari complesse quanto quelle degli umani.

Durante un’epidemia, un allevamento di buoi può essere facilmente controllato, perché il comportamento di ogni animale che lo costituisce è prevedibile. Per gli uomini, questo è – nel bene e nel male – semplicemente impossibile.

La variabilità del comportamento umano, che d’altra parte ha rappresentato il principale problema per soluzioni particolarmente drastiche, quali lockdown, distanziamento sociale e interventi non farmacologici, è al tempo stesso l’elemento non previsto da Vallance e dai sostenitori dell’immunità di gregge.

Per combattere una pandemia, pare si richieda una maggiore inventiva.














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