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Esperienze premorte

La morte rappresenta da sempre l’ultima grande prova che l’essere umano si troverà, suo malgrado, ad affrontare. Una grande incognita su cui le civiltà si sono sempre interrogate, fornendo risposte diverse allo stesso interrogativo: cosa c’è dopo?


Alcuni credono alla reincarnazione, altri accettano l’idea di un indefinito “nulla”, altri ancora sostengono l’esistenza di un Aldilà. Eppure, persino fra le comunità più religiose, la fine della vita continua ad incutere timore, a generare un’ansia esistenziale definita, in gergo, tanatofobia (dal greco “thanatos”, morte).


Benché il popolare aforisma che sostiene nessuno sia mai tornato indietro dalla morte sia comunemente accettato come veritiero, sono tante le esperienze premorte raccolte nel corso degli anni. Non solo mistici e veggenti, ma anche persone comuni o persino medici e scienziati hanno raccontato di essersi trovati al confine fra vita e morte, perfettamente coscienti di cosa stesse accadendo.


I racconti premorte hanno dei tratti comuni: l’attraversamento di una sorta di tunnel buio con una forte luce proveniente dal fondo, l’abbandono del proprio corpo, il passaggio della vita davanti ai propri occhi e una sensazione di pace e serenità mai provata prima.


Una delle tante testimonianze di chi ha sperimentato la condizione di premorte è stata raccontata nel libro “Tornati dall’Aldilà”, del giornalista Antonio Socci. Qui Socci afferma che sua figlia, Caterina, è stata “morta” per più di un’ora, a seguito di un infarto. I soccorritori erano convinti non ci fosse più nulla da fare, finché non entrò in stanza un sacerdote, don Andrea: il prete cominciò a pregare e dopo poco il cuore di Caterina tornò miracolosamente a battere.


Un approccio scientifico al problema


Nel suo libro “Knife’s edge’, scritto per ricordare alcuni dei suoi casi clinici più mirabolanti, il grande cardiochirurgo inglese Stephen Westaby racconta di una donna che, durante un’operazione a cuore aperto, fu vittima di un improvviso arresto cardiaco. Nel tentativo di salvarle la vita, medici e infermieri tentarono di resuscitarla con massaggi cardiaci, compressioni e scosse di defibrillatore e alla fine, dopo minuti carichi di tensione, riuscirono nell’intento. La donna era salva.


Nelle ore successive all’intervento, la paziente raccontò al dottore di come avesse percepito la sua anima slegarsi dal suo corpo, fluttuando fino al soffitto della stanza, e di come addirittura avesse assistito alla sua rianimazione. Westaby riporta, ancora stupito dopo tanti anni, il perfetto resoconto fatto dalla donna sull’intera scena, citando parola per parole le frasi, gli ordini e le imprecazioni del personale che l’aveva assistita. Ovviamente, oltre a descrivere l’episodio con un certo stupore, a metà fra la sorpresa e l’incredulità, non vi è da parte del chirurgo nessun tentativo di indagare più fondo la natura dell’esperienza premorte.


La cosa, beninteso, non dovrebbe affatto stupire: trovare una risposta definitiva alla domanda di fondo dell’animo umano – se vi sia, cioè, qualcosa dopo la morte – è impossibile per la scienza. Si può ricorrere al metodo scientifico per indagare su fenomeni naturali e formulare teorie e modelli empiricamente verificabili, ma se ci si spinge al di là della materia e si accede a quel nebuloso piano del pensiero, spesso etichettato come ‘soprannaturale’, la sola scienza non basta.


Cosa può dirci dunque la scienza su un problema formalmente estraneo alla sua stessa logica? Tanto per cominciare, è possibile gettare chiarezza, per quanto possibile, sugli aspetti fisiologici della questione? In altre parole, è possibile chiedersi cosa avvenga nella mente di un uomo vittima di un’esperienza premorte?


Spesse volte, prima che il cuore smetta di battere, è il cervello a subire il primo stop legato alla morte. L’elettroencefalogramma piatto, indicativo della cosiddetta "morte celebrale", dimostra l’assoluta assenza di attività cerebrale. In casi simili, il paziente è ridotto ad un vero e proprio vegetale, la cui sopravvivenza è resa possibile solo e soltanto dall’alimentazione artificiale fornita da complessi macchinari ospedalieri. Staccare la spina equivarrebbe a lasciar scivolare l’individuo nella fatal quiete.


Studi piuttosto recenti, eseguiti in tandem da fisiologi e neurochirurghi su pazienti in fin di vita, sembrano rilevare l’emissione di onde ad alta intensità provenienti da diverse aree del cervello. Questo, a detta degli scienziati, renderebbe possibile l’esperienza di particolari fenomeni sensoriali: un ricordo particolarmente caro, un’immagine suggestiva, forse anche suoni o odori di varia natura.

 

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Charlotte Martial, neurofisiologa belga da anni dedita alla ricerca sull’argomento, fornisce un quadro diverso ma altrettanto interessante. In caso di un danno sistemico esteso a diversi distretti corporei, con gravi disfunzioni della circolazione e, soprattutto, della respirazione, il cervello si troverebbe nella condizione di dover sfruttare le poche riserve metaboliche a disposizione per sostentare l’organismo in fin di vita. La sopravvivenza dipende fondamentalmente dalla capacità delle cellule di sfruttare nutrienti esterni per produrre energia a sufficienza per finanziare tutte le loro attività biochimiche, come un motore che richiede ingenti quantità di benzina per poter carburare a dovere.


Le attività fisiologiche sono in larga parte permesse – o quanto meno regolate – dal sistema nervoso, a cui fa capo, inutile dirlo, il cervello. Se l’energia a disposizione è insufficiente per soddisfare tutte le richieste, il cervello attua un meccanismo tanto disperato quanto ingegnoso: induce nell’organismo una sorta di risparmio energetico, veicolando tutte le risorse disponibili al sostentamento delle attività fisiologiche strettamente indispensabili per la sopravvivenza e trascurando tutte le altre, giudicate come relativamente meno importanti. Il corpo si aggrappa alla vita con le ultime forze rimaste, bada ai suoi bisogni primari e si disinteressa di tutto ciò di cui si può fare a meno. Data la scarsissima concentrazione di ossigeno – e tutti i vari problemi che affliggono una persona in fin di vita – il cervello tenta di restaurare le sue attività fondamentali, innescando un’intensa e anomala attività bioelettrica. È possibile, secondo la scienziata, che proprio in questa fase critica il concerto sinaptico improvvisato dalla mente umana nel tentativo di salvarsi possa indurre nel paziente delle esperienze sensoriali e cognitive al limite dell’irreale, catapultandolo in un sogno lucido in cui l’incoscienza domina la coscienza e il confine fra la vita e la morte si fa nebuloso e indefinibile.


Un mistero risolvibile?


I meccanismi sono ancora poco chiari, le teorie proposte sono numerose e spesso in contrasto le une con le altre, lo scetticismo degli scienziati si scontra con la fede dell’uomo comune, la speranza che la fine del corpo non sia anche la fine della persona alimentano il dibattito su una questione che, con ogni probabilità, non verrà mai risolta completamente. Possiamo formulare ipotesi azzardate o conservatrici, possiamo ascriverci all’una o l’altra scuola di pensiero, ma nell’attesa di trovare una soluzione – ammesso che esista – l’unica opzione che resta è quella di scommettere.


"Scommettere bisogna", scrisse Pascal nei suoi Pensieri: lasciamo dunque ad ogni uomo la libertà di vivere a modo suo il proprio rapporto con la morte.


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