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Cosa sappiamo sulle origini del COVID-19

UNA DOMANDA CRUCIALE

L’origine del virus Sars-CoV-2, meglio noto al grande pubblico con il nome di “Covid 19”, rappresenta tuttora un grande enigma per la virologia molecolare. Dal 2020 ad oggi, alcuni fra i più brillanti scienziati dei nostri tempi hanno tentato di rispondere ad una domanda formulata dal mondo intero: da dove viene questo virus? E’ naturale o artificiale? È stato ingegnerizzato in un laboratorio cinese o proviene da qualche strano animale esotico? Cos’è successo davvero, tra ottobre e novembre 2019, nel mercato di Huanan?

In una pandemia, domande del genere non si limitano a tenere svegli i ricercatori e i medici impiegati in prima linea: sono, al contrario, i mattoni con cui iniziare a costruire la strada verso la normalità. Il motivo è molto semplice: identificare con successo la fonte di un microbo è indispensabile, se si vuole risolvere il problema della sua diffusione.


UNA DOMANDA SPINOSA

Il grande problema del Covid-19 è la sua alta trasmissibilità. Si tratta, in sostanza, di un virus estremamente contagioso, in grado di circolare nell’aria più o meno liberamente e invadere le vie aree dei suoi ospiti, iniziando in poco tempo a replicarsi all’interno delle loro cellule.

La ragione di una così alta trasmissibilità risiede in una specifica caratteristica strutturale del suo genoma: il sito di scissione della furina.

Quando il virus entra nell’organismo e approccia una cellula del suo epitelio respiratorio, la proteina Spike si aggancia ad uno specifico recettore cellulare e, grazie al sito di scissione della furina, cambia forma e si fonde strutturalmente alla membrana della cellula. É così che comincia l’infezione. Il sito, quindi, funziona come un vero e proprio innesco ed è l’elemento alla base dell’altissima trasmissibilità del Covid-19.

E proprio qui sta l’inghippo: per poter essere attivato a sua volta, il sito di scissione della furina deve prima interagire con la purina, una molecola estremamente diffusa negli organismi umani. Il virus della SARS, cioè Sars-CoV-1, nella cui famiglia rientra anche il Covid, è del tutto privo di questa struttura. Anche per questo la SARS non è riuscita a diffondersi in tutto il mondo in una manciata di mesi. La domanda, a questo punto, diventa: da dove proviene il sito di scissione della furina presente in SARS-CoV-2? Come ha fatto il virus a subire un avanzamento così utile ai fini della sua contagiosità? Da qui, i dubbi sull’origine effettivamente naturale del virus e il sospetto che potesse provenire da un laboratorio di virologia hanno preso a diffondersi non solo presso le file dei complottisti di Internet, ma anche fra alcuni scienziati rispettabili. Ad oggi, a distanza di quasi tre anni dall’inizio della pandemia, esistono due grandi ipotesi in merito alla sua provenienza: quella naturalistica e quella artificialista.


L’IPOTESI NATURALISTICA

Per spiegare la presenza del sito di scissione della furina in un coronavirus che ne sarebbe altrimenti privo, gli scienziati hanno immaginato un fenomeno di ricombinazione genica: il Covid-19 sarebbe nato a seguito dello scambio di materiale genico avvenuto fra due virus diversi, uno dei quali sarebbe stato dotato del sito di scissione.

È questa l’ipotesi formulata da due eminenti virologi, Bill Gallaher e Kypros Lytras. I due virus avrebbero, in prima istanza, infettato lo stesso animale, addirittura penetrando nella medesima cellula. Durante la replicazione indipendente dei due ceppi, sarebbe avvenuto un copy-choice error (errore di scelta della coppia): alcuni tratti di entrambi i virus si sarebbero sovrapposti, portando alla nascita di un nuova genoma ricombinante, una sorta di ibrido fra i due ceppi iniziali.

Un sito di scissione della furina funzionalmente simile a quello presente in Sars-CoV-2 è stato trovato in un virus piuttosto diffuso fra i pipistrelli della contea di Mengla, in Cina, chiamato RmYN02.

È possibile, quindi, che il Covid-19 provenga da due linee virali divergenti che hanno avuto in comune un unico antenato, che circolava fra i pipistrelli negli anni ‘70 del secolo scorso (il periodo temporale viene stimato in base alle varie mutazioni genomiche). Infettando lo stesso animale, i due virus si sarebbero accidentalmente mescolati. Il nuovo virus, quindi, avrebbe ereditato un’estrema contagiosità uomo-uomo, mantenendo tuttavia un’ampia diffusione presso altre specie animali, come ippopotami, gorilla, leoni, tigri e persino gatti e furetti.

Esiste anche un modello ipotetico alternativo, proposto dal francese Robert Frutos. La tesi di Frutos si fonda su un presupposto teorico piuttosto elementare: i virus adattati a varie specie animali hanno un’enorme diversità genetica e sono evolutivamente assai flessibili. Vagando da una specie all’altra, il virus non solo si diffonde a macchia d’olio, ma va anche incontro a numerose mutazioni, dalle quali emergono, nel tempo, diverse varianti dello stesso ceppo di partenza. Ovviamente, nelle aree in cui uomini e animali vivono a stretto contatto, è verosimile che il virus compia un salto di specie, infettando anche la specie umana. Ne consegue, quindi, che un’epidemia (come pure una pandemia, è chiaro) è un fenomeno estremamente complesso, che dipende da moltissime variabili collegate fra loro. Non è possibile trovare un’unica causa scatenante: occorre pensare in grande e prepararsi a cercare più “Capri espiatori”. Frutos ipotizza quindi un doppio incidente:

  1. Incidente genetico: si verificano casualmente una o più mutazioni genetiche che rendono il virus più contagioso del normale, conferendogli un grande vantaggio evolutivo;

  2. Incidente sociale: si verifica una particolare circostanza sociale che consente al virus di diffondersi facilmente in una vasta popolazione.

L’incidente genetico e l’incidente sociale permettono ad un virus mutato estremamente contagioso di infettare una soglia di persone abbastanza alta, da innescare una crisi epidemica o addirittura pandemica. Secondo lo scienziato francese, nel caso di SARS-CoV-2, l’incidente genetico coincide con l’acquisizione del sito di scissione della furina, che ha reso il virus molto più trasmissibile del normale. L’incidente sociale, invece, deriva dalla “festa della Primavera” di Wuhan e dell’alto numero di contatti fra masse avvenuto per quell’occasione. La tesi di Frutos appare particolarmente convincente alla luce di un fatto emerso fra la fine del 2020 e l’inizio del 2021. A seguito di complesse analisi genetiche, si dimostrò come il virus avesse dimostrato, entro i primi nove mesi della pandemia, una notevole stabilità genetica, subendo pochissime mutazioni. Un fatto piuttosto insolito, considerando la tendenza dei coronavirus a combinarsi e mutare di continuo. C’è un solo modo per giustificare questo fenomeno: il Covid deve aver circolato nella popolazione umana per diverso tempo già prima della pandemia, adattandosi più o meno perfettamente al genoma dell’uomo. Una mutazione casuale e una circostanza sociale favorevole alla diffusione hanno semplicemente potenziato la sua capacità di infettare gli esseri umani.


L’IPOTESI ARTIFICIALISTA

A causa dell’estrema risonanza della questione sui social media e sul web, è piuttosto facile individuare un insieme più o meno omogeneo e scientificamente sensato di ipotesi ascrivibili al modello artificialista. Tendenzialmente, esistono due possibili scuole di pensiero:

  1. Il Covid sarebbe un virus appositamente creato in laboratorio, probabilmente per scopi militari.

  2. Il virus sarebbe esistito in natura già prima della pandemia, ma alcuni scienziati lo avrebbero artificialmente modificato in laboratorio per renderlo contagioso per gli umani e studiare gli effetti dell’infezione.

Delle due teorie, la prima è certamente quella più improbabile. Ingegnerizzare un virus è un processo molto complesso, che comincia a partire da un backbone (un sostegno biologico) estrapolato da virus già esistenti in natura. Nel caso di SARS-CoV-2, sembra che il genoma sia troppo sui generis per poter esser derivato da uno dei vari backbone comunemente usati dai virologi molecolari per esperimenti di ingegneria virale.

La seconda teoria, invece, sembrerebbe molto più sensata, o comunque verosimile, ed è caldamente sostenuta da due scienziati particolarmente brillanti, l’inglese Matt Ridley, zoologo evoluzionista, e la cinese Alina Chang, biologa molecolare esperta in virus e biostatistica. A partire dalle già citate osservazione riportate in merito al sito di scissione della furina, gli scienziati ritengono probabile uno scenario da “fuga di laboratorio”, a seguito di esperimenti di miglioramento delle prestazioni virali ( cioè la capacità del virus di infettare l’uomo), d’altronde piuttosto frequenti a livello mondiale. Per approfondire questo punto di vista, si consiglia la lettura del libro di Ridley e Chan, “Viral: The search for the origin of Covid-19”.


IL RAPPORTO DELL’OMS

L’OMS si è occupata di far luce sul mistero delle origini del Covid-19 (in maniera più sistematica) a partire dal 2021. Ad oggi, il rapporto dell’OMS enuncia quattro possibili scenari:

  1. Spillover (salto di specie) diretto da un animale all’uomo;

  2. Trasmissione da un ospite serbatoio tramite una seconda specie animale;

  3. Esposizione mediante cibi congelati;

  4. Fuga dal laboratorio per incidente.

La quarta ipotesi esclude a priori un rilascio volontario da parte del presunto laboratorio che avrebbe lavorato sul virus in precedenza. La terza ipotesi, quella della catena del freddo, prevede che il virus fosse annidato in alimenti surgelati portati dai vari angoli della Cina fino al mercato di Huanan e da qui diffusi, in un secondo momento, grazie ai traffici commerciali nazionali. É fortemente caldeggiata dalla maggior parte degli scienziati cinesi. L’elenco non è casuale: è stato stilato tenendo conto della probabilità dei vari scenari ipotetici. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dunque, l’origine naturale del virus mediante salto di specie è da considerarsi come estremamente probabile e la fuga da laboratorio come estremamente improbabile.


IL PECCATO ORIGINALE DELLA PANDEMIA

Perché tanto baccano per una questione scientifica così astratta e tecnica? Il Covid-19 ha cambiato il mondo, imponendo per molto tempo una condizione di diffusa emergenzialità. Posto dinanzi ad un nemico invisibile, comparso all’improvviso dal nulla, il pubblico di non addetti ai lavori ha rivolto l’attenzione - nevroticamente- ad un settore scientifico, quale quello della virologia, estremamente tecnico, selettivo ed elitario. Ancora, la pressione politica, da una parte, e la continua intromissione dei media, dall’altra, hanno costretto medici e scienziati ad esporsi ai riflettori di tutto il mondo, facendo promesse che quasi mai sono riusciti a mantenere. I dati, le osservazioni e le teorie avanzate da ricercatori sparsi in tutto il globo sono stati amplificati da telegiornali e tweet, gettati alla mercé di chiunque avesse uno smartphone. Ipotesi troppo audaci, poi rivelatesi sbagliate, sono state spacciate per conquiste definitive o rimedi miracolosi.

Una disciplina scientifica normalmente praticata da specialisti si è trasformata in scienza da salotto. La scienza, scriveva Karl Popper nel Novecento, è una forma di sapere che procede per tentativi ed errori. È un processo razionale fatto di ricerca, confronto, idee brillanti e colpi di fortuna. Non propone verità rivelate, ma soluzioni provvisorie e verosimili. Una grande convinzione può resistere secoli, senza mai essere contraddetta, salvo poi crollare nel giro di pochi mesi, a seguito di teorie migliori e più convincenti. Il paradigma scientifico può cambiare da un momento all’altro.

Il peccato originale della pandemia da Covid-19 è stato quello di aver esposto questo processo, normalmente nascosto a tutti, se non agli addetti ai lavori, al “grande pubblico generalista”, fornendo, in questo modo, un’immagina della scienza falsa e detestabile. Che lo si voglia o no, SARS-CoV-2 rappresenta ancora un nemico per il benessere della popolazione e per sconfiggerlo serviranno tutto il genio degli scienziati disposti a combatterlo e il buon senso di politici e persone comuni.

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