Come nascono i virus
Peter Medawar, geniale immunologo specializzato nella scienza dei trapianti, ebbe modo di definire i virus “cattive notizie impacchettate in una capsula”.
Una definizione, quella di Medawar, metaforica ma estremamente funzionale.
In sostanza, un virus è costituito da una singola molecola di DNA o RNA (mai entrambi contemporaneamente) contenuti all’interno di una capsula zuccherina, chiamata capside. La presenza di un singolo acido nucleico è una caratteristica tipica dei virus, praticamente ineguagliata da qualsiasi altra forma di vita.
Ma è davvero corretto, in questo caso, parlare di vita? Ha senso inserire i virus nel grande albero della vita, al pari di altri esseri viventi, siano pure semplici e microscopici come i batteri e gli archei?
Per decenni, gli scienziati hanno stentato addirittura ad usare il termine organismo in riferimento alle particelle virali. Più frequentemente, si era soliti parlare di materiale biologico. Secondo questa definizione, quindi, un virus sarebbe un oggetto in grado di infettare una cellula e sfruttarne il genoma al fine di sintetizzare le proteine necessarie per il suo sostentamento. Diffondendosi da cellula a cellula, tutto l’organismo diventerebbe una fabbrica di produzione virale, la vittima di un perfetto parassita endocellulare obbligato.
Ad oggi, gli scienziati hanno avanzato ben tre ipotesi a proposito della misteriosa origine dei virus. Si tratta di modelli ancora del tutto ipotetici, ma ognuno di loro si fonda su dati e osservazioni empiriche piuttosto interessanti.
1. IPOTESI ANCESTRALE
All’alba della vita, nella misteriosa zuppa primordiale dalla quale tutto ha avuto origine, il DNA e l’RNA, così importanti negli attuali processi biochimici degli organismi biologici, non furono le prime molecole in grado di replicarsi. È possibile, infatti, che anche altre strutture affini siano emerse dal brodo ancestrale.
I ricercatori parlano di replicatori, ovvero sia di molecole in grado di propagare le proprie caratteristiche strutturali e funzionali da una generazione all’altra, attraverso una biochimica più o meno complessa.
Ecco quindi che, durante questa fase di iniziale sviluppo di strutture autoreplicanti, i virus sarebbero emersi, per puro caso, ben prima delle cellule primordiali. In un secondo momento, con la nascita degli archei e dei primi batteri, i replicatori virali sarebbero entrati in competizione con le cellule, inaugurando una millenaria tradizione di parassitismo.
2. IPOTESI DELLA FUGA
Nate le prime cellule, le generazioni primordiali di organismi unicellulari avrebbero sviluppato genomi sempre più complessi, al punto da incappare in intere sequenze genetiche ridondanti e del tutto inutili alla loro sopravvivenza.
Queste sezioni del genoma sarebbero state perse inavvertitamente, ma non eliminate. Conservando una certa autonomia replicativa, avrebbero acquisito una struttura capsidica a base polisaccaridica e avrebbero avviato una propria linea di discendenza evolutiva: quella, per l’appunto dei virus.

3. IPOTESI DELLA RIDUZIONE
Apparentemente la più promettente delle tre, l’ipotesi della riduzione è l’ultimissimo modello avallato da una nutrita fetta di virologi molecolari.
Secondo questa teoria, il virus non sarebbe né il prodotto di scarto delle cellule primordiali né un antesignano dei primi replicatori. Al contrario, non avrebbe alcun punto in comune con gli antenati delle cellule procariotiche ed eucariotiche e sarebbe, piuttosto, il discendente molecolare di un’antichissima cellula, nata anche prima degli archei e dei batteri.
Questa cellula, con un DNA e un RNA specifici ed un metabolismo energetico funzionale, sarebbe entrata in competizione con le cellule primordiali più efficienti, che avrebbero dato origine a forme di vita più avanzate (fra cui Homo Sapiens) e, come spesso accade nell’agone evolutivo della vita, avrebbe perso. L’intensa pressione selettiva operata dai vincitori avrebbe spinto le cellule sconfitte a ridurre il proprio genoma e a sopravvivere sotto forma di strutture molecolari più semplice, ma irrimediabilmente diverse. E così, sarebbero nati i primissimi virus.
Il virus, quindi, assomiglia ad una cellula perché deriva da una cellula, per quanto semplice e primitiva potesse essere. Il parassitismo obbligato sarebbe una strategia adattativa escogitata dai virus primordiali per sopravvivere e continuare a propagare il proprio genoma.
QUAL È LA VERITA’?
L’ipotesi della riduzione, per quanto possa sembrare, almeno all’apparenza, fantascientifica, ha trovato un sostegno piuttosto diffuso grazie alla scoperta – relativamente recente – di una tipologia di virus del tutto particolare, definita Megavirus, e in particolare a due “esemplari” specifici rinvenuti nelle amebe, Mimivirus e Pandoravirus.
Il Mimivirus ha una caratteristica anomala, se confrontata con quanto affermato in precedenza da questo articolo: possiede un genoma abbastanza complesso da poter sintetizzare enzimi e proteine strutturali che nessun’altro virus finora scoperto potrebbe creare in piena autonomia. Pare quindi che questo particolare oggetto biologico non sia poi così semplice, ma che nasconda, addirittura, una complessità piuttosto sorprendente.
Ma come è possibile giustificare l’esistenza del Mimivirus, se non ricorrendo alla riduzione? Come si può render ragione di un genoma virale tanto articolato, se non supponendo che derivi da un corredo genetico molto più denso e strutturato, quale potrebbe essere quello di una lontana cellula progenitrice?
Non bastano cento pecore bianche a dire che tutte le pecore sono bianche, ma è sufficiente una pecora nera per sostenere che non tutte le pecore sono bianche.
Il Mimivirus non potrebbe facilmente provenire da un antico replicatore autonomo e acellulare, e di sicuro non è il risultato di un casuale taglia e cuci di frammenti di genomi più complessi. Al contrario, sembra proprio inquadrarsi perfettamente nell’ipotesi della riduzione.
Questo vuol dire che il modello esatto è quello della riduzione?
Difficile dirlo, non senza aver accumulato un numero di dati e osservazioni decisamente più nutrito. Non senza aver confutato in maniera sostanziale gli altri due modelli, che d’altra parte sono tutto, fuorché inverosimili.
Quale che sia la risposta, è chiaro che il rapporto che intercorre fra virus e cellule è nettamente più complesso di quanto si potrebbe immaginare concentrandoci sul singolo aspetto clinico della faccenda. E chissà se la lotta intestina fra virus e umani non possa essere meglio compresa come quella fra Abele e Caino, due fratelli che condividono la medesima origine ma hanno sostituito l’armonia con il sangue e la morte.